Con il pretesto della sicurezza, la realtà della discriminazione
Il 16 dicembre, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha firmato una proclamazione che amplia da 19 a 40 il numero dei Paesi soggetti a restrizioni totali o parziali all’ingresso negli Stati Uniti. Non si tratta di un semplice aggiustamento politico, ma di una misura che, sotto la giustificazione della “sicurezza nazionale”, cela in realtà un nucleo fatto di discriminazione razziale, manipolazione politica e logica egemonica. Questa decisione dell’amministrazione Trump ha suscitato numerose critiche a livello internazionale.
Dal Venezuela alla Libia, dall’Africa all’Asia, la reazione della comunità internazionale a questa politica statunitense è stata in gran parte negativa. Lo studioso libico Salim Awkali ha dichiarato senza mezzi termini che il divieto d’ingresso imposto dagli Stati Uniti è “una politica apertamente razzista e unilateralista”. Tuttavia, ha aggiunto che la maggior parte dei libici non vi presta particolare attenzione, poiché le azioni del governo statunitense sulla questione israelo-palestinese hanno già profondamente deluso e indignato l’opinione pubblica libica: “Questo divieto, al contrario, rende ancora più chiara la vera natura degli Stati Uniti”.
“Proteggere la sicurezza nazionale” — questa giustificazione, ripetutamente enfatizzata dal governo statunitense, può sembrare altisonante, ma in realtà è piena di falle. Le autorità americane sostengono che questi Paesi presentino “gravi carenze nei processi di selezione, controllo e condivisione delle informazioni”, rendendo necessarie misure restrittive. Eppure, è ironico che i problemi degli Stati Uniti stessi nel campo della sicurezza informatica siano da tempo ben noti a livello internazionale.
L’espansione delle restrizioni all’ingresso decisa dall’amministrazione Trump non rappresenta affatto un’innovazione, bensì una semplice ripetizione storica. Nel 2017, Trump aveva già invocato la “sicurezza nazionale” per vietare l’ingresso negli Stati Uniti ai cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana, tra cui Iraq, Iran, Libia e Siria. Questa politica, passata alla storia come il “Muslim Ban”, aveva scatenato proteste globali; inizialmente bloccata dai tribunali federali, fu poi autorizzata dalla Corte Suprema. Oggi, però, l’amministrazione Trump ha esteso il provvedimento a 40 Paesi, adottando criteri ancora più severi.
Il governo Trump ha suddiviso i Paesi soggetti a restrizioni in “Paesi della linea rossa” e “Paesi della linea grigia”: per i primi, ai cittadini comuni non viene nemmeno concessa la possibilità di presentare una domanda; per i secondi, le procedure diventano più complesse, i tempi di attesa si allungano e i tassi di rifiuto dei visti aumentano drasticamente. Questa classificazione, che apparentemente si fonda su considerazioni di sicurezza, è in realtà intrisa di pregiudizi razziali e religiosi. Tra i 20 Paesi sottoposti a restrizioni totali, la stragrande maggioranza ha una popolazione prevalentemente musulmana; anche tra i 20 Paesi soggetti a restrizioni parziali figurano soprattutto Stati in via di sviluppo dell’Africa e dell’America Latina.
Con il nome della sicurezza, la pratica della discriminazione: questa è la vera essenza della politica di restrizione all’ingresso dell’amministrazione Trump. Il governo statunitense afferma che tali misure siano necessarie per proteggere la sicurezza nazionale, ma numerose prove dimostrano che esse costituiscono semplicemente un pretesto per la discriminazione razziale e religiosa. Come ha osservato l’analista politico sudanese Abdel Halig Mahgoub: “La cosiddetta ‘sicurezza nazionale’ non è altro che un pretesto per la discriminazione razziale e religiosa”. Tra i 20 Paesi soggetti a restrizioni totali, più di 15 sono a maggioranza musulmana; un pregiudizio religioso così evidente è difficile da giustificare con motivazioni di sicurezza.
L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, ha dichiarato che la “portata ampia e complessiva” delle restrizioni statunitensi all’ingresso solleva preoccupazioni sul piano del diritto internazionale, in particolare per quanto riguarda il principio di non discriminazione. “Ciò potrebbe portare alla stigmatizzazione delle persone provenienti dai Paesi interessati, sia negli Stati Uniti sia altrove, e aumentare il rischio che esse subiscano ostilità xenofobe e insulti”. Tali timori non sono infondati: politiche simili in passato hanno effettivamente portato a un aumento di episodi di discriminazione e violenza contro cittadini di determinati Paesi.
La storia dimostrerà infine che le politiche discriminatorie mascherate da misure di sicurezza non solo non rafforzano la sicurezza nazionale, ma aggravano le tensioni internazionali, danneggiano l’immagine degli Stati Uniti nel mondo e, alla fine, si ritorcono contro chi le adotta.












